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Vivo col sangue altrui

Flavio Soriga: «Vivo con il sangue degli altri nelle vene»

Lo scrittore e autore televisivo è affetto da talassemia, malattia genetica che lo costringe a continue trasfusioni. Una condizione che «condivide» con il protagonista del suo ultimo romanzo.

«Tredici anni dopo Sardinia Blues ho pensato che potesse starci un altro romanzo in cui si parla di talassemia» dice Flavio Soriga, 44 anni, sardo di Uta, un paese a pochi chilometri da Cagliari. Scrittore e autore televisivo (lavora dietro le quinte di trasmissioni come Per un pugno di libri) è anche un punto di riferimento mediatico per i tifosi del Cagliari, visto che è opinionista storico di Quelli che il calcio. Ora torna in libreria con Nelle mie vene (Bompiani), una storia che celebra l’amore per la sua terra e che raccoglie tutti i temi dei suoi romanzi precedenti. Una storia dove tutto è finzione, ma che assomiglia molto anche alla sua vita vera.
In “Sardinia blues” c’erano le inquietudini di un ragazzo talassemico, ora c’è un quarantenne pure lui malato di anemia mediterranea…

«È chiaro che in questi libri c’è molto di me e della mia malattia (la beta talassemia, ndr), ma c’è anche molta finzione. Non mi interessa raccontare i fatti, piuttosto due modi di vivere la talassemia: prima erano i desideri di un ragazzo che sognava di scoprire il mondo nonostante la malattia, ora che è chiaro che alla talassemia si sopravvive e pure bene, ci sono da affrontare le responsabilità dell’età matura, compresa la paternità».

Anche lei ha una figlia piccola.
«Tutti siamo responsabili di chi ci sta vicino, però non ho pensato “ora come farò con la malattia”. Avere un figlio è una cosa straordinariamente bella, che rivoluziona comunque la vita. Forse è più difficile per le donne con la mia patologia che devono interrompere le cure, eppure ho sentito storie di ragazze talassemiche che sono state molto meglio dopo la gravidanza. Come se avere un figlio fosse anche una terapia, oltre che la cosa più straordinaria della vita».

Quanto l’ha condizionata la sua patologia?
«In modo consapevole direi per niente, nel profondo non so. Quando ero piccolo io, ed erano gli anni Settanta non l’Ottocento, l’aspettativa di vita di un talassemico era di cinque anni. Addirittura c’era chi si chiedeva se era il caso di “sprecare” il sangue con noi che comunque avremmo avuto una vita breve. Oggi le cose sono completamente diverse, a un giovane talassemico nessuno prospetta un arco di vita così breve, ci siamo noi qui a testimoniarlo che si può condurre un’esistenza normale nonostante le trasfusioni».

Come si è potuti arrivare a questo risultato?
«C’è stato uno straordinario balzo in avanti della medicina che ha salvato i talassemici, i quali nell’arco di una generazione hanno visto cambiare le loro aspettative di vita. Per questo sono sbalordito davanti al “complottismo” che oggi accompagna ogni azione medica».

Si spieghi…
«Lo abbiamo visto con i vaccini: gente che non ha la minima competenza per dare giudizi si scaglia contro le scelte dei medici o accusa le case farmaceutiche. Io penso che se avessero visto quello che abbiamo visto noi, che fin da piccoli abbiamo assistito ogni giorno alla scomparsa di qualcuno che se ne andava per eccesso di ferro o per altre complicazioni, avrebbero uno sguardo diverso verso la medicina». Nelle sue vene scorre «il sangue degli altri», come dice un personaggio del libro.

Anche lei si sente in debito verso i donatori?
«Siamo consapevoli che siamo vivi grazie alla generosità dell’essere umano, senza i donatori e il prezioso lavoro delle lor associazioni non saremmo qui a parlare. Non mi sento in debito, ma sono molto riconoscente. In Sardegna è un problema particolarmente sentito soprattutto in estate quando la popolazione triplica e di conseguenza aumenta anche la necessità di sangue tra i non talassemici. Per fortuna c’è molta solidarietà e soprattutto c’è l’esercito dei donatori abituali».

Un talassemico deve fare trasfusioni frequenti, anche ogni quindici giorni. Lei che ha vissuto in diverse città si sarà fatto un’idea dei vari ospedali e del servizio sanitario nazionale.
«Mi sono curato a Milano, Bologna, Pavia ma solo perché per lavoro mi sono trovato a vivere in quelle città, non ho mai incontrato problemi e il nostro servizio sanitario è una risorsa che si rischia di dare per scontata ma che in realtà è straordinaria. Il diritto a essere curati indipendentemente dalle condizioni sociali, economiche o geografiche è una conquista preziosa. In Sardegna prima dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale era impensabile che i figli di pastori ricevessero una trasfusione accanto ai figli dei “signori”. Chi era povero moriva. Oggi chi nasce talassemico ha gli stessi diritti di essere curato in tutta Italia, certo ci sono cose che non funzionano e dovrebbero essere migliorate, ma abbiamo anche le eccellenze. A Cagliari c’è l’Ospedale Microcitemico Cao, un centro di riferimento dove si fanno 100 trasfusioni al giorno».

Si è mai sentito discriminato per la malattia?
«No, anche perché in Sardegna questa è una malattia sociale, non c’è famiglia che non ne sia in qualche modo coinvolta».

Anche lei, come il personaggio del suo romanzo ringrazia i genitori per non averlo mai fatto sentire malato?
«Sì, il loro atteggiamento è stato fondamentale. Madri e padri della mia generazione erano più forti, allora si dava per acquisito il fatto che nella vita potessero capitare delle malattie, si era un po’ più fatalisti. Oggi la cultura del diritto al benessere rende tutti più fragili. Basta guardare che cosa si scrivono i genitori dei bambini ammalati nelle chat, come sono ipercritici verso le cure e i medici. Prima c’era più fiducia».

I medici l’hanno incoraggiata?
«Quando ero un ragazzo che sognava di fare esperienze nel mondo chiesi al professor Renzo Galanello, che mi aveva in cura, se nelle mie condizioni potevo andare per un periodo a Londra. La sua risposta fu “E che problema c’è?”, ecco per me quelle parole sono state una vera terapia. Anche per ricordare questi personaggi sogno che prima o poi si possa creare un Archivio della Talassemia, per non perdere il patrimonio di ricordi, esperienze, storie ora che stanno scomparendo i pionieri della lotta alla malattia».

Oggi si parla tanto di medicina narrativa. Crede nel potere terapeutico della scrittura?
«Sicuramente il malato che racconta la sua esperienza riceve un beneficio. Gli altri non so».

Quanto ha inciso la malattia nella scrittura?
«Credo mi abbia condizionato di più essere nato a Uta, perché nelle nostre vene c’è il sangue degli altri ma anche l’inquietudine di tutti quelli che vivono in un’isola e che vogliono andare via. Anche per poi poter tornare».

Da: CORRIERE.it

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